Febbraio, ultimo mese di inverno, un mese in cui l’isola, ancora assopita, avvolge i suoi abitanti e i suoi pochi visitatori con la suggestione di tempi passati.
Il mese perfetto per lasciarsi trasportare nella Capri che fu, grazie ai sapori e ai profumi della sua antica cucina. Una cucina povera, in cui la gente doveva arrangiarsi e aguzzare l’ingegno per portare a tavola un piatto caldo e corroborante. Quando il vento sferzante e il mare in subbuglio impedivano ogni collegamento con la terraferma, e con esso l’approvvigionamento di materie prime diverse da quelle presenti sull’isola stessa. Un’isola che ha ospitato il Mondo intero ma che ha anche dovuto imparare a fare i conti con l’isolamento e la mancanza di risorse.
Un piatto emblematico di quest’arte dell’arrangiarsi in cucina è la Minestra Maritata. Nella sua preparazione confluiscono raccolti dell’orto ed erbe selvatiche: amare, nutrienti e resistenti, capaci di crescere senza troppe cure sulla calcarea roccia di Capri. Broccoli (torzelle), bietole, cardoni, borragine, scarole, verza e cicoria. La tradizione isolana più rigorosa vuole che ve ne siano almeno sette, da raccogliere in punti strategici dell’isola. Alcune lungo il sentiero del Pizzolungo, altre sul Monte Solaro, altre ancore per la Migliara e la strada del Faro. Certo poi al di là del canone, in ogni casa si usavano quelle che si avevano a disposizione in quel momento.
La Minestra Maritata non è nata sull’isola, è stata importata nei paesi costieri del Mediterraneo dai naviganti spagnoli sul finire del 1500. Essa tuttavia ha trovato a Capri terreno così fertile da poter essere considerata pienamente un’antica preparazione locale. La Olla Potrida, come era chiamata nella lingua originale, si diffuse infatti in quei luoghi i cui abitanti dovevano fare i conti con la scarsità di cibo. Come racconta Claudio Novelli nel suo “Giallaranci mitili impazziti di luce” (raccolta di ricette e testimonianze letterarie sulla cucina caprese), un tempo ci volevano circa otto ore di viaggio per raggiungere Capri, sempre che le condizioni metereologiche fossero favorevoli. E sull’isola montagnosa e calcarea, brulla e priva di sorgenti, ogni risorsa andava impiegata con cura e parsimonia.
Nulla si buttava via a Capri, soprattutto dei rari animali che venivano macellati. I pezzi meno nobili delle bestie finivano così per nobilitare, insieme al preziosissimo olio e a qualche scorza di formaggio, tutte le verdure che si riuscivano a reperire.Nel pentolone al centro del focolare si riunivano, come le donne che si scaldavano preparando la minestra, tutte le erbe raccolte, e si congiungevano col “pezzo di carne”, non un pezzo nobile appunto, bensì ossa, lingua o quant’altro si fosse portato a casa. E così il “matrimonio” veniva celebrato in una lunga, sobbollente cottura. Quelle ossa orfane dei pezzi di carne più pregiati venduti ai ricchi, conferivano alla minestra il sentore, il godurioso profumo della carne. E nella casa tutta aleggiava l’idea oltre che l’odore stesso di un piatto speciale, da assaporare tutti insieme in un momento di gioia familiare.
Capri, 19 marzo 1930
Cara, dolce, amata Konstantiskaja Orsolinska, tre giorni fa sono entrato nel bagno a pianterreno della Villa Pierina non solo con l’animo straziato e dilaniato per la notizia della brutta accoglienza che il pubblico di Mosca aveva riservato alla mia Cimice e che la critica aveva cercato in tutti i modi di schiacciare sotto i piedi, ma soprattutto con atroci dolori causatimi dalla minestra con la quale mi avevi accolto di ritorno dalla gita al Monte Solaro. Miserabile destino è quello dell’uomo, quando corpo e anima soffrono insieme. Incastrato tra la vasca e il lavabo, la mia disperata solitudine riflessa nello specchio, le torzelle e le verze giocavano a rimpiattino con i miei sentimenti più accesi, le cimette di rapa e i broccoletti deridevano il mio mormorante strazio per la subitanea e repentina dipartita da te. Da te, dalla quale ero stato costretto a fuggire, e dalle tue mani lievi, che con gesto greve avevano profuso locine e cotiche, salsicce e tracchiolelle, in un afrore appassionato di aglio e peperoncino. Avevo ancora nelle narici gli effluvii che questa tua druidica amorosa pozione aveva sparso per il tuo boudoir impregnando tulle, trine e lenzuola nel suo lungo sobbollire. Così, soffrendo e gemendo, non potendomi allontanare anche perché nella concitazione del momento avevo dimenticato da te i miei pantaloni di flanella grigia, su un lungo nastro di serica cellulosa, tra una crisi e l’altra, riassaporando le astute scorze di parmigiano e provolone, persa ormai la nozione del tempo, disperando del futuro, ho composto così, per ingannare il mio lo martoriato, il mio ultimo sforzo, e per un senso di doverosa correttezza nei tuoi confronti e di verità storica, l’ho intitolato appunto “Il Bagno”. Non mi resta che esserti grato, come al solito, ma ti prego dolce micetto, la prossima volta andiamo a cena fuori. Depero mi ha detto che alla locanda delle Grottelle si mangia benissimo e soprattutto “leggio, lieggio” come usano dire qui.
Il tuo cucciolo fedele, Vladimir.
Lettera di Vladimir Majakovskij tratta da “Giallaranci mitili impazziti di luce” di Claudio
Novelli, Edizioni La Conchiglia.
Articolo a cura di Mariapia Ricci
Foto a cura di Mariapia Ricci e Alfonso Catuogno
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